Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quali tutele per il lavoratore.

a cura di Giacomo Scortichini

Il solo profitto d'impresa non è giustificato motivo.

E’ una tipologia di licenziamento che è strettamente correlata all’andamento della azienda, o almeno così dovrebbe essere.

La società non è più florida e sente il bisogno di riprogrammare, di riorganizzare nuove strategie e politiche industriale che andrebbero a coinvolgere anche una nuova organizzazione delle “risorse umane”.
Quindi la “proprietà” potrebbe ritenere strategico o persino decisivo, per il prosieguo dell’attività di impresa, intraprendere azioni di licenziamento che andrebbero ad interessare uno o più dipendenti, non più funzionali all’impresa.
Dunque sussiste una condizione oggettiva che obbliga l’imprenditore a licenziare per garantire una continuità imprenditoriale.

Il punto è comprendere quali siano le motivazioni che giustificano “ il recesso” del rapporto di lavoro.

Non possiamo nasconderci che nessuno al di fuori dell’imprenditore è in grado di determinare l’esistenza del “ giustificato motivo”; forse il Giudice, ma limitatamente alla sua possibilità di valutare nel merito le scelte strategiche dell’impresa.
Già un nuovo macchinario, o una accelerazione sull’automatizzazione delle linee produttive sarebbero già sufficienti a configurare, o ad meglio essere rappresentati, come licenziamenti per giustificati motivi oggettivi, quando invece il realtà potrebbero essere scelte finalizzate al solo miglioramento degli utili d'impresa.
Ed è proprio in questo ambito,
cioè nella reale motivazione del licenziamento, che dobbiamo ricercare le nuove tutele.
Accertare, nella massima trasparenza, che il licenziamento rappresenta la solo volontà di evitare quelle condizioni di mancanza di competitività, o di scarsa marginalità, che metterebbero a rischio la sopravvivenza dell’impresa, significa non sottrarre l’impresa dagli obblighi sociali che la Costituzione gli assegna.
Infatti non appare sufficiente e nemmeno accettabile che il costo del lavoratore si riversi interamente nell’utile d’impresa, perché questo è palesemente in contrasto, da un lato, con uno dettame costituzionale di ispirazione “ L’Italia e una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, dall’altra dal ben più stringente Articolo 41 della nostra Costituzione che statuisce ché "
L’iniziativa economica privata è libera".
Andrebbe però letto anche il secondo comma dove afferma che "Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana".

Allora la domanda da porsi è la seguente : “Tutte le scelte sono lecite al fine del miglioramento degli utili d’impresa ? L’articolo 41 ci dice NO!

L’arricchimento, in quanto elemento privatistico, si nutre della riduzione del “benessere”, inteso come elemento pubblicistico e diffuso. Dunque è giunto il tempo che il legislatore ripensi alle tutele del lavoro all’interno della “ Dignità umana”.
E’ del tutto evidente che parole come “stabilità”, “tempo determinato”, “indeterminato”, attualmente non esprimono nulla di concreto, perché la discrezionalità è ormai ad uso esclusivo dell’imprenditore.
Quanto alle scelte di chi licenziare dovrebbero essere applicati criteri di correttezza e buona fede.

È senza dubbio illegittimo scegliere il lavoratore da licenziare sulla base di motivazioni discriminatorie (razziali, di sesso, di orientamento religioso o politico, ecc.).

Pr quanto riguarda
"L’obbligo di ricollocamento", che grava sul datore di lavoro, consiste nella individuazione di altra mansione equivalente o inferiore al fine di evitare il licenziamento.
È esteso a tutte le sedi dell’azienda ed è perciò responsabilità del datore di lavoro fornire la prova dell’impossibilità di ricollocamento del lavoratore non solo presso la sede di lavoro dove svolge la sua prestazione lavorativa, ma anche presso le altre eventuali unità locali.
Credo che se il fine è quello di abbattere il costo del lavoro e non migliorare la riorganizzazione, questo istituto non possiede più nessuna significanza.

In conclusione possiamo affermare che, ad oggi, il nostro ordinamento tutela l'impresa ma non il diritto al lavoro e del lavoratore.
Da ciò emerge, con grande evidenza, un allontanamento dai principi costituzionali, nonché da un doveroso bilanciamento tra i diritti dei lavoratori e quelli del datore di lavoro; ed è in questo ambito, cioè in quello costituzionale, che andrebbero affrontati i contenziosi, perché il fine ultimo, nell'inerzia legislativa, è quello di ritrovare un equilibrio di forze e di interessi tra datore di lavoro e i lavoratori; un equilibrio ad oggi astrattamente garantito solo a livello costituzionale.

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