Diritto del lavoro, quali tutele
a cura di Giacomo Scortichini
Il lavoro da diritto a prerogativa.
Il processo di globalizzazione unitamente all’inarrestabile progresso tecnologico sono alla base di un nuovo modello occupazionale che ha sconvolto il mercato del lavoro in questi ultimi decenni.
In un recente passato il lavoro ha saputo rispondere non solo agli aspetti di funzionalismo e produttività, ma anche ad una società che gli chiedeva di rappresentare la stabilità sociale e la dignità umana.
Per meglio comprendere le profonde trasformazioni e bene sottolineare che gran parte delle imprese hanno delegato alla “compressione” del costo del lavoro la ricerca del proprio vantaggio competitivo; questa fallimentare strategia ha attivato un circolo vizioso che ha da un lato mortificato la domanda interna, dall’altro ha ridotto le capacità di competere su ambiti più qualificanti rispetto a politiche commerciali sostanzialmente basate sulla variabile prezzo.
Oggi il mercato del lavoro si presenta dinamico e imprevedibile, con un elevatissimo numero di variabili peraltro anch’esse molto volatili e caratterizzate da profonde contraddizioni.
La sicurezza lascia il posto alla precarietà, la sottoccupazione convive con il “super lavoro”; il lavoro diviene una funzione sociale individualista e le categorie di lavoro appaiono sempre più inadeguate per descrivere un realtà sempre più eterogenea.
Si profilano rischi di nuove forme di sfruttamento e conflitti legati alla ridefinizione degli assetti gerarchici.
Una volta definito il fenomeno della flessibilità, possiamo prendere in considerazione il legame tra flessibilità del lavoro e precarietà economica, non intesa come correlazione necessaria, bensì come ipotesi ad altra probabilità.
Contrastare tali rischi significa strutturare un sistema formativo più efficace, insieme a delle tutele normative tese ad evitare “l’esclusione sociale”.
Una analisi sul mercato del lavoro non basta per comprendere i cambiamenti in atto, serve includere e considerare politiche economiche che hanno determinato l’attuale mercato del lavoro.
Bisogna legare la nuova realtà del lavoro ai nuovi rapporti di potere all’interno del capitalismo, soprattutto tra finanza ed impresa.
La spinta alla flessibilità è quindi alla precarizzazione, vanno visti anche in una ridotta autonomia aziendale rispetto alla finanza che, con il suo continuo e mutevole spostamento dei capitali, non permette la persistenza di strutture produttive stabili.
Questa estrema flessibilità è nata da una destrutturazione aziendale che va sotto il nome di “outsourcing”: Quindi alle concentrazioni finanziarie delle imprese non corrisponde un pari fenomeno di concentrazione a livello produttivo e gestionale.
La riduzione del ruolo delle grandi imprese, nel nostro Paese, è sotto gli occhi di tutti, con la conseguente proliferazione di piccole imprese che, pur mantenendo quella flessibilità, non possiedono gli elementi per fare sistema e le risorse per fare ricerca e sviluppo.
Esistono due studi particolarmente interessanti :
Il PIL mondiale potrebbe crescere stabilmente del 5% annuo senza che da questo ne scaturisca un solo nuovo rapporto di lavoro ( Domenico De Masi)
Una ricerca americana della “ McKinsey Global Institute” rivela che entro il 2030 fino a 800 milioni di lavoratori potrebbero essere sostituiti da robot, stiamo parlando di un quinto dell’attuale forza lavoro.
Non si capisce poi a chi saranno venduti questi prodotti perfetti e realizzati a costi di produzione così contenuti, visto che il lavoro si avvia a divenire una rara prerogativa.
Considerata la natura non propria filantropica di questi entusiasti finanziatori del transumanesimo,
si può immaginare un consumatore sganciato dal lavoro, cioè una società priva di produttività umana.
Ricercare il vantaggio competitivo d’impresa attraverso la sola compressione del costo del lavoro è un grande errore, perché nella sua semplicità strategica o meglio nella sua ovvietà, non tiene conto che questo agire impedisce :
- Politiche di innovazione, per le quali servono risorse umane motivate e ben remunerate
- Politiche di prodotto per le quali servono professionalità tecnico-commerciali di lato livello
- Politiche di comunicazione che sono tipiche di aziende vitali, espansive, rivolte al futuro, ad una visione premiale
- Infine, ma la più importante e decisiva, è che l’impresa non è una complessa organizzazione nata per creare solo profitti, ma anche per realizzazione scopi sociali, che anche la Costituzione gli assegna.
L’avidità è una pessima consigliera e per questo che la solo strategia di contenimento del costo del lavoro può apparire come la cosa più ovvia e conveniente, ma è la negazione di una concezione imprenditoriale, che vive nella dimensione prospettica, nella dimensione del futuro, nella espansione e nella conquista.
Questa è una struttura aziendale che vive una profonda depressione perché ha smarrito il concetto fulcro dell’imprendere : “ La volontà di creare una soggettività industriale capace di competere nel mercato”.
Il minimalismo imprenditoriale è un ossimoro perché difendere è la negazione di imprendere.
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